INFANZIA. “Conosco Antonio da quando abbiamo 9 o 10 anni. In quegli anni ed in quei quartieri dai quali venivamo la strada era molto particolare ed il rischio di perdersi forte. Ecco perché i nostri genitori ci stavano addosso e siamo stati molto fortunati perché abbiamo avuto l’educazione giusta. Noi eravamo come fratelli, siamo cresciuti insieme nelle giovanili giallorosse e a quei tempi anche la squadra era la famiglia”.
COMITIVA. “C’eravamo io, lui, Gianluca Petrachi, Morello e Garzya. Praticamente inseparabili. Per noi non c’era meglio di stare insieme, avevamo gli stessi interessi e gli stessi sogno. Il più grande era quello di giocare con la maglia del Lecce e già a 14-15 anni eravamo in prima squadro. Fuori dal campo era appuntamento fisso al bar Adriano. Ci dicevamo sempre la stessa cosa: diventare qualcuno per poter aiutare i nostri genitori”.
EPISODIO. “Avevamo entrambi 17 anni quando un giorno, senza essere patentato, mi feci prestare l’auto di un amico e andai a prendere Antonio da casa. Ci facemmo un giro fino a quando stava finendo la benzina che non avevamo i soldi per rimettere. A quel punto lo riporto a casa e si chiede se avessi o meno la patente. Io gli dissi di no, voleva menarmi. Per lui le regole erano sacre e non andavano violate. Ha sempre dimostrato grandi dedizione, mentalità e caparbietà”.
LECCE. “Lui vuole bene a Lecce e la ama perché molto perché siamo figli di quella terra. Anche da giocatori sentivamo l’emozione prima di entrare in campo da avversari dei giallorossi, ma poi inizia la partita e ognuno deve pensare ai propri interessi”.