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Fisco, PIL, lavoro e non solo. Ecco perché è importante la ripartenza (in sicurezza) del calcio italiano

Il calcio, nel mondo e soprattutto in Italia, è passione ma non solo. E’ anche un’industria che impiega centinaia di migliaia di lavoratori e tesserati in forma diretta, ed almeno il triplo in via collaterale. Ecco perché non si può fermare troppo a lungo.

Da un mese nel resto del mondo, che diventano due per quanto riguarda l’Italia, il calcio si interroga circa se, come e quando ripartire. Un dialogo che, in particolare nelle italiche latitudini, ha assunto facilmente i connotati della feroce polemica, spesso influenzato dal subdolo interesse degli uni o dal superficiale disinteresse degli altri partecipanti al dibattito pubblico.

Tant’è che a passare in secondo piano sono spesso stati i dati più oggettivi, che dovrebbero al contrario essere gli unici componenti della querelle: salute pubblica e, in secundis, importanza dell’industria calcio nel tessuto socio-economico italiano. Sì, perché sebbene a tutti piacerebbe pensare al calcio come semplice gioco, questo ha smesso da almeno tre o quattro decenni di essere soprattutto tale. Intorno ai 22 ragazzi in campo c’è tanto, troppo di più. Ma andiamo con ordine.

Investire tempo nel sottolineare quanto la sicurezza sanitaria pubblica sia alla base di tutto sarebbe un insulto all’intelligenza di chi scrive, ma soprattutto del lettore. E ci si addentrerebbe inoltre in un tema ad esclusivo appannaggio di esperti dei settori medico, epidemiologico e virologico. Noi possiamo solo premettere, onde evitare fraintendimenti, l’importanza di proteggere dal mostro coronato calciatori, addetti ai lavori e cittadini tutti il più possibile. Il messaggio non è che il calcio debba ripartire ad ogni costo, ma che se ci fosse (come sembra) un modo per concludere in sicurezza la stagione 2019/2020 nei prossimi mesi, evitando buchi di ulteriormente prolungato, questo sarebbe di fondamentale importanza. Il perché è di seguito esplicato.

Come preannunciato (e come tangibile da ogni utente medio di qualsiasi tipo di media degli ultimi trent’anni), il calcio è una delle più grandi industrie italiane. E non solo nell’immaginario collettivo fatto di calciatori milionari, presidenti magnati e pay-tv, ma lo è numeri alla mano.

Con esattezza, secondo gli studi della multinazionale canadese Thomson Reuters, leader mondiale della raccolta dati sulle economie di settore, il calcio oscilla costantemente tra la terza e la settima posizione nella classifica delle industrie italiche per fatturato. Quest’ultimo si attesta attorno ai 5 miliardi di euro annui. Quanto a investimenti, è con 14 miliardi addirittura la terza, dietro solo a Governo e settore finanziario. Numeri abbastanza eloquenti.

Allargando il proprio raggio d’interesse ed influenza, il pallone tricolore ha un impatto pesantissimo sul PIL del Belpaese. Con 30 miliardi ne costituisce quasi il 2%. E un suo fermo perdurante nel tempo (sarebbe, assieme al turismo, l’unica industria “big” in Italia a fermarsi totalmente ben oltre i due mesi) contribuirebbe al forte rischio recessione dell’economia nazionale, secondo un recente studio de La Gazzetta dello Sport.

In seconda istanza, in un periodo di forte indebitamento, con fatica lo Stato potrebbe sopperire all’assenza di contributo fiscale diretto dell’industria calcio. Questo si aggira in media, secondo Il Sole 24 Ore, tra gli 1,5 e gli 1,8 miliardi di euro.

Numeri secchi, che costituiscono solo una fetta di un impatto complessivo del settore nell’economia nazionale che includerebbe soggetti ed imprese terze che collaborano al funzionamento del sistema calcio. Per un totale di circa due milioni di persone (dati Pwc) impiegati, in maniera diretta ed indiretta, con un ruolo attivo nel settore. Tralasciando infine, almeno in questa fase di attesa/transizione, l’aspetto culturale che funge soprattutto da attrattore turistico per le città italiane, e in particolare per le realtà di provincia altrimenti tagliate fuori, all’estero.

Un discorso, quello appena affrontato, che di certo non andrà ad influire le decisioni istituzionali. Né può in alcun modo permettersi, o anche solo pensarlo, di prevaricare valutazione di natura socio-sanitaria ed assistenziale. L’obiettivo è solo quello di raggiungere una maggiore consapevolezza collettiva che possa quantomeno contribuire a ridurre il grado di polemica nel pubblico dibattito che contorna ogni discorso sul tema di questi tempi. Per far sì, in ultima istanza, di arrivare a decisioni prese, finalmente e come magari un po’ utopica prospettiva, per il bene di tutti.

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