Intervistato dalla Gazzetta dello Sport, il centrocampista ucraino, in giallorosso nel 2019/2020, racconta i giorni di terrore vissuti durante il conflitto nei giorni in cui è venuta alla luce la figlia Amenia.
Jevhen Shakhov si racconta ai taccuini della Rosea fino al racconto del 24 febbraio, il giorno dell’attacco russo: “Io e mia moglie viviamo ad Atene, ma desideravamo che la bambina nascesse a Kiev, la nostra città. Così, qualche settimana fa Alona è tornata dai suoi genitori: ci tenevamo in contatto via telefono. Io, nel frattempo, continuavo ad allenarmi, ma ero pronto per volare in Ucraina quando sarebbe stata sul punto di partorire Il 24 febbraio Alona piangeva, diceva che l’attacco russo era iniziato. Da lì, ho vissuto giorni di terrore. Tutta la mia famiglia era in pericolo, mi sentivo impotente di fronte a questa situazione. Prima del ricovero in un ospedale di Kiev, mia moglie – incinta da nove mesi – si è dovuta rifugiare nei bunker, con la nostra bambina che sarebbe potuta nascere da un momento all’altro. Io non ho potuto assistere alla nascita di mia figlia, se fossi entrato in Ucraina non ne sarei più uscito in virtù della chiamata alle armi”
Su Gazzetta.it, nell’intervista curata da Francesco Calvi, Shakhov continua il racconto: “Dopo la nascita di Amenia, con Alona abbiamo deciso di incontrarci sul confine rumeno. Mia moglie e mia figlia hanno dovuto trascorrere cinque giorni in auto: due per uscire dall’Ucraina, altri tre per arrivare ad Atene. A prendersi cura di loro è stato mio fratello, che ha guidato da Kiev verso il confine: il viaggio è lunghissimo perché ci sono decine di posti di blocco, un traffico indescrivibile e, soprattutto, tanta paura. Da un momento all’altro potrebbe cadere una bomba, bisogna fare attenzione al tragitto che si sceglie. Il 9 marzo ho incontrato loro per poi proseguire alla volta della Grecia. La bambina, nata da pochi giorni e reduce da un lungo viaggio, non sarebbe potuta salire su un aereo: così, sono tornato al volante per raggiungere Atene”.
L’emozione di aver portato Alona e Amenia ad Atene fa però il paio con la paura: “Mio padre e mio fratello rientrano nella categoria di soggetti arruolabili e, pertanto, sono dovuti rimanere in città. Mia madre non ha intenzione di lasciarli soli, telefono continuamente per sapere se stanno bene. È dura non poterli avere vicino, temere il peggio e non avere modo di intervenire. Mi fa rabbia, al tempo stesso, sentir parlare di fake news e immagini fasulle: io e mia moglie riceviamo quotidianamente notizie attendibili e video spaventosi dai nostri parenti. Due milioni e mezzo di persone sono fuggite in cerca di riparo: questo dato dovrebbe bastare per spiegare la paura della mia gente. L’Ucraina ha bisogno di aiuto. Non si tratta di una guerra per difendere la nostra terra, ma la nostra libertà”.
Povero mondo
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